NOI DEL LICEO

promessi sposi schema

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    Origini Introduzione del romanzo

    I Promessi Sposi non iniziano subito con la narrazione dei fatti, ma vi è prima una introduzione.
    In essa vi è una lunga citazione dove parla una voce ignota che usa un linguaggio arcaico. Questa citazione si interrompe bruscamente per dare spazio al Manzoni che parla in prima persona. La citazione dell’anonimo si presenta come un manoscritto del ‘600 (che egli vuol far credere di aver ritrovato e tradotto). Questo testo presenta inoltre caratteristiche tipiche del barocco di quel secolo (esso è ipotattico cioè ricco di metafore, retoriche, molti aggettivi e avverbi, molti latinismi, linguaggio altisonante, grafia ricca di maiuscole ecc.)
    Nella seconda parte dell’introduzione il Manzoni ci spiega che questo testo non è mai esistito, ma bensì è frutto della sua invenzione.
    Attraverso l’espediente del manoscritto egli ci introduce nel periodo storico del romanzo. Manzoni assume la posizione di uno storiografo che critica il 600 per le violenze, per i soprusi e per le violenze.
    Sempre nell’introduzione chiarisce la posizione poetica di letterato romantico che critica la letteratura del ‘600 che non ha fine pedagogico.
    Manzoni non fu il primo a fingere di ritrovare un manoscritto, ma prima di lui ci furono: Boccaccio, Ariosto ecc.

    La stesura e le edizioni [modifica]
    1---La prima idea del romanzo risale al 24 aprile 1821, quando Manzoni cominciò la stesura del Fermo e Lucia, compose circa in un mese e mezzo, i primi due capitoli e la prima stesura dell'Introduzione; interruppe però il lavoro per dedicarsi al compimento dell'Adelchi e al progetto, poi accantonato, di un'altra tragedia, Spartaco. Dall'aprile del 1822 il Fermo fu ripreso con maggiore lena e portato a termine il 17 settembre 1823 (sarebbe stato pubblicato nel 1915 da Giuseppe Lesca col titolo "Gli sposi promessi"). In questa prima edizione è presente, in nuce, la trama del romanzo e tuttavia, Il Fermo e Lucia non va considerato come laboratorio di scrittura utile a preparare il terreno al futuro romanzo, ma come opera autonoma, dotata di una struttura interna coesa e del tutto indipendente dalle successive elaborazioni dell'autore. Rimasto per molti anni inedito, il Fermo e Lucia viene oggi guardato con grande interesse. Seppure la tessitura dell'opera è meno elaborata di quella de I Promessi Sposi, nei quattro tomi del Fermo e Lucia si ravvisa un romanzo irrequieto a causa delle scelte linguistiche dell'autore che, ancora lontano dalle preoccupazioni che preludono alla terza ed ultima scrittura dell'opera, crea un tessuto verbale ricco, dove s'intrecciano e si alternano tracce di lingua letteraria, elementi dialettali, latinismi e prestiti di lingue straniere. Anche i personaggi appaiono meno edulcorati e forse più pittoreschi di quella che sarà la versione definitiva. Sullo sfondo la Lombardia del XVII secolo è dipinta come scenario non pacificato, il cui potere politico coincide con l'arbitrio del più forte, la cui ragione (come insegna La Fontaine) è sempre la migliore. Di fronte alle storture del potere spagnolo, l'autore stende la luminosa esperienza della Repubblica di Venezia, cui Fermo, e successivamente Renzo, giunge dopo la fallimentare esperienza della rivolta del pane.
    2 --Una seconda edizione dell'opera (la cosiddetta Ventisettana) fu pubblicata da Manzoni nel 1827, con il titolo I promessi sposi, storia milanese del sec. XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, e riscosse notevole successo.
    Manzoni non era, tuttavia, soddisfatto del risultato ottenuto, poiché ancora il linguaggio dell'opera era troppo legato alle sue origini lombarde. Nello stesso 1827 egli si recò, perciò, a Firenze, per risciacquare - come disse - i panni in Arno, e sottoporre il suo romanzo ad un'ulteriore e più accurata revisione linguistica, ispirata al dialetto fiorentino considerato lingua unificatrice. Ciononostante non sono pochi i lettori del romanzo a preferire la ventisettana per la ricchezza delle sue scelte lessicali, e per il retrogusto ancora schiettamente lombardo, che rendono questa versione decisamente più viva rispetto a quella successiva che viene, normalmente, stampata e di solito studiata a scuola.
    3---Tra il 1840 e il 1842, Manzoni pubblicò quindi la terza ed ultima edizione de I promessi sposi, la cosiddetta Quarantana, cui oggi si fa normalmente riferimento. Fondamentale, all'interno dell'economia dell'opera, il ruolo che assumono le illustrazioni del piemontese Francesco Gonin, cui l'autore stesso si rivolge per arricchire il testo di un apparato iconografico. Il rapporto fra Manzoni e Gonin è di grande intesa, lo scrittore guida la mano del pittore nella composizione di questi quadretti. La forza espressiva delle litografie del Gonin è impressionante, al lettore si rivela un mondo vastissimo di volti e fisionomie, sempre varissime; personaggi che passano dal solenne al grottesco, dall'ascetico al torbido, in una composizione che non trascura mai quella certa, accattivante, ironia che ogni lettore del romanzo ben conosce. Su quest'ultimo punto si consideri, ad esempio, la vignetta che chiude l'introduzione, dove è di scena lo stesso scrittore, in camicione da notte e pantofole, mentre sfoglia davanti ad un rassicurante camino un librone, che potrebbe essere tanto il resoconto secentesco della vicenda, quanto il romanzo che, chi legge ha sotto gli occhi in quel momento. La più recente critica manzoniana, si pensi solamente a Ezio Raimondi o a Salvatore Silvano Nigro, ha lungamente sottolineato il valore esegetico di questo apparato di immagini, vero e proprio paratesto alla narrazione delle vicende matrimoniali dei due protagonisti. Le moderne edizioni, che non si rifanno ai criteri della stampa anastatica, privano i lettori di uno strumento essenziale alla comprensione del testo. Oggi sfugge anche ai più colti fruitori dell'opera di Manzoni che uno dei nodi principali de I Promessi Sposi consiste proprio nel rapporto che intercorre fra lettera e immagine.

    Secondo un tipico cliché della narrativa europea fra sette e ottocento, il narratore prende le mossa da un manoscritto anonimo del XVII secolo, che racconta la storia di Renzo e Lucia. Nulla sappiamo dell'autore di questo manoscritto, salvo che ha conosciuto da vicino i protagonisti della vicenda, e non si esclude che lo stesso Renzo possa aver reso edotto questo curioso secentista lombardo, della sua storia. Il topos della trascrizione della vicenda narrata da un testo o trascritta dalla voce diretta di uno dei protagonisti permette all'autore di giocare sull'ambiguità stessa che sta alla base del moderno romanzo realistico-borghese, ovvero il suo essere un componimento di fantasia che, spesso, non disdegna di proporsi ai sui lettori come documento storico reale ed affidabile.
    In appendice al testo c'è la Storia della Colonna infame; in cui Manzoni ricostruisce il clima di intolleranza e ferocia in cui si svolgevano gli assurdi processi contro gli untori, al tempo della peste raccontata del romanzo .

    Autore/narratore AUTORE REALE NARRATORE
    autore virtuale NARRATARIO
    lettore virtuale LETTORE REALE
    Alessandro Manzoni (Milano 1785-1873).
    Illuminista (fiducia nella ragione), anticlericale e antiaustriaco in gioventù.
    Dopo il 1805 entra in contatto, in Francia, con gli scrittori romantici (attenzione ai sentimenti e all’interiorità della persona, rifiuto del classicismo).
    Nel 1810 si converte al cattolicesimo.
    Convinto assertore della funzione della Chiesa in campo spirituale (neoguelfo), è contrario al potere temporale dei papi e all’esistenza dello Stato Pontificio, vuole Roma capitale d’Italia (cattolico liberale).
    Dimostra sempre interesse profondo per le classi più deboli e oppresse, tuttavia condanna con uno scritto i metodi violen ti della Rivoluzione francese del 1789. - Ha fiducia nella ragione e nei sentimenti dell’uomo.
    - E’ cristiano e cattolico, crede nella Provvidenza divina.
    - Crede la conversione dell’uomo a Dio sempre possibile.
    - E’ sensibile al dramma degli umili, dei poveri, degli oppressi, dei diseredati.
    - Ha una visione positiva della funzione storica della Chiesa cattolica.
    - E’ critico verso il malgoverno, lo sfruttamento, l’ingiustizia, la tortura.
    - Deplora ogni rivoluzione violenta, anche se legittima - Rifiuta la demagogia dei politici. Manzoni si rivolge ad un lettore di media cultura, benpensante e moderato. Noi

    Argomento Cronologia dei Promessi Sposi

    7 Novembre 1628 D.Abbondio incontra i bravi.

    8 Novembre 1628 Renzo si reca dall’avvocato Azzeccagarbugli.

    10 Novembre 1628 tentativo fallito di matrimonio tra Renzo e Lucia (fuggono dal loro paese e si dirigono verso Monza e Milano).

    12 Novembre 1628 Renzo viene arrestato e fugge verso l’Adda.

    20 – 25 Nov. 1628 Lucia viene rapita dall’Innominato e conversione dello stesso.

    Inverno 1628-1629 carestia a Milano.

    Settembre 1629 la calata dei Lanzichenecchi sul Milanese.

    Fine Sett. 1629 primi casi di peste a Milano.

    22 Ottobre 1629 primi casi accertati di peste.

    Marzo 1629 viene eretto il Lazzaretto dai frati cappuccini.

    11 Giugno 1629 A Milano viene effettuata una storica processione per scongiurare la peste.

    30 Agosto 1629 Presso il Lazzaretto si trovano Renzo e Lucia, Fra Cristoforo e di lì a poco muore Don Rodrigo.

    Novembre 1630 Al paese natale Renzo e Lucia si sposano.

    Dic.-Genn. 1631 I due sposi si trasferiscono nel Bergamasco.


    LO SPAZIO DELLA STORIA, DELLA FABULA

    Capitoli 1-8: villaggio sul ramo orientale del lago di Como (lago di Lecco), il nome non è citato: potrebbe essere Olate o Acquate;
    capitolo 5: a Lecco da Azzecca-garbugli;
    capitolo 9: Lucia a Monza;
    capitolo 11: Renzo a Milano;
    capitolo 17: Renzo a Bergamo dopo il tumulto milanese;
    capitolo 27: anche Lucia è a Milano, dopo il rapimento, ospite di donna Prassede: ecco che ci si avvia al lieto fine, col ricongiungimento nel paese natio;
    capitolo 38: dopo il matrimonio i tre tornano nel Bergamasco e, anche per critiche alla bellezza di Lucia, Renzo acquista un filatoio e si trasferisce definitivamente alle «porte di Bergamo».


    Trama [modifica]
    I due protagonisti sono Renzo e Lucia, due giovani col desiderio di sposarsi ma a causa di Don Rodrigo che si è invaghito di Lucia, tutto va all'aria. Don Abbondio, il curato che deve celebrare il matrimonio, è minacciato dai bravi e per paura si sottrae al suo impegno. Per un caso fortunato, Lucia sfugge ad un rapimento ordinato da don Rodrigo e con l'aiuto di Fra Cristoforo si rifugia a Monza, in un convento. Qui la potente suor Gertrude,la inganna, e permette che venga rapita dagli uomini di un criminale, l'Innominato, a cui si è rivolto don Rodrigo. Portata al castello dell'Innominato, Lucia è inquietata e spaventata, per questo motivo opera un voto di castità alla Madonna pregandola di farla uscire sana e salva dalla faccenda, inoltre, la giovane donna riesce a commuovere l'animo di quell'uomo, facendolo convertire da cattivo a buono, grazie anche al perdono da parte del cardinale Borromeo. Grazie al nuovo buon animo dell’Innominato, Lucia è libera e, più avanti, viene ospitata nella casa di don Ferrante a Milano. Nel corso di questi avvenimenti Renzo, che ha raggiunto Milano, viene coinvolto in una protesta contro la mancanza di pane e sta per essere arrestato, ma la folla lo aiuta a fuggire. Riesce poi ad arrivare a Bergamo e a trovare ospitalità e lavoro presso un cugino, Bortolo. Intanto agli orrori della guerra si aggiungono quelli della peste: le truppe mercenarie dell'esercito imperiale, i lanzichenecchi, diffondono il contagio. Renzo e Lucia si ammalano ma riescono a guarire. Finalmente dopo tante tragiche vicende, i due promessi sposi si incontrano nel Lazzaretto di Milano, il luogo dove vengono portati i malati di peste e dove Renzo, disperato, è andato a cercare Lucia. Con l'aiuto di frate Cristoforo, che scioglie il voto alla Madonna, fatto in precedenza da Lucia, i due innamorati possono ancora amarsi. I due riusciranno a sposarsi solo quando don Rodrigo morirà di peste, il suo successore sarà un marchese conosciuto per la sua benevolenza. Si stabiliscono, infine, in un paese del Bergamasco e la loro vita diviene “da quel punto in poi, una delle vite più tranquille, delle più felici e delle più invidiabili”. Renzo acquista con il cugino una piccola azienda tessile e Lucia, aiutata dalla madre, si occupa dei figli. Le peripezie hanno insegnato a Lucia che non basta essere buoni e pii per tenersi al riparo dal male, Renzo, invece ha appreso che bisogna confidare nel futuro e non aver fretta di farsi giustizia da sè. Nel dialogo finale dei due protagonisti traspare la concezione manzoniana di Provvida Sventura,infatti il dolore può farci crescere e renderci più consapevoli, migliori.



    temi 1) 1) La scelta degli umili: questa è una scelta innovativa. Nel romanzo non compaiono però solo persone umili. Questa è una scelta nuova perché prima si erano sempre celebrate le figure dei potenti. Questa scelta si può poi far ricadere in un campo religioso. La fede cristiana porta così Manzoni a scegliere gente umile (perché il vangelo li celebra). Egli vede i poveri come coloro a cui va la benevolenza di Dio.

    2) 2) E’ un romanzo storiografico: la scelta degli umili porta ad assumere una nuova posizione critica davanti al concetto di storia : bisogna correggere la visione culturale che ha sempre e solo dato spazio ai potenti. Manzoni critica la storia dei potenti e rivaluta il ruolo degli umili nella storia.

    3) 3) Gli oppressori: Manzoni polemizza contro essi. Raccontare la storia degli umili diventa anche raccontare una storia di oppressioni (vi è quindi una chiave polemica).


    Un’altra tematica è la scelta del 1600. Questo secolo ha enormi squilibri sociali: secolo di oppressioni, guerre e culturalmente caratterizzato da ipocrisie e violenze. La scelta del ‘600 è emblematica perché il Manzoni criticando questo secolo, critica anche il secolo a lui contemporaneo (i due secoli erano molto simili).
    Per egli il ‘600 è un secolo di grandi vuoti culturali.

    L’ultima tematica è la provvidenza. Essa è il filo conduttore del romanzo. La provvidenza cristiana è la fiducia profonda che si ripone in dio. Le vicende degli uomini non sono casuali; ma aver fede vuol dire vivere la vita senza comprendere del tutto ciò che ti accade.
    Si può ricordare la lettera “Sul Romanticismo” del 1823 in cui egli scrisse della sua dedizione al romanticismo. Egli afferma che si deve parlare di verità. Il letterato deve essere coinvolto ed interessato. Bisogna rendere leggibile il testo.
    I Promessi Sposi sono la dimostrazione di ciò; essi ci insegnano la fiducia nell’esistenza di un Dio provvidente che rende vivibili le vicende umane.


    Romanzo storico Il primo romanzo storico italiano furono Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo. La forma epistolare adottata dal Foscolo si rifà a modelli narrativi rintracciabili nella Clarissa di Richardson, ne La Nuova Eloisa di Rousseau e nei Dolori del giovane Werther di Goethe, a cui Foscolo si ispira direttamente. I caratteri principali dell'Ortis sono:
    1. il motivo sentimentale: il romanzo indugia a descrivere i sentimenti personali del protagonista di fronte alla realtà;
    2. l'autobiografismo: il romanzo è espressione di una vicenda personale.
    A differenza del Werher, nell'Ortis il motivo sentimentale si complica con la delusione politica, causata nella fattispecie dalla caduta di Venezia. La passione viene contrapposta all'intelletto governato dalla ragione; la nutura diviene lo sfondo delle vicende umane. Il tono adottato è irruento, di sfogo.
    All'Ortis fanno seguito, nella nostra letteratura, I Promessi Sposi del Manzoni. La vicenda privata di Renzo e Lucia viene narrata sullo sfondo delle vicende di tutto un paese e di tutto un popolo. La poetica romanzesca è nuova e si fonda su tre cardini: il vero come soggetto, l'interessante come mezzo, l'utile come fine. A differenza dei romanzi storici di Walter Scott, ne I Promessi Sposi non vi è gusto per il romanzesco e il tema amoroso non è approfondito, mentre vi è più gusto per l'analisi psicologica dei personaggi.
    Il romanzo storico ebbe anche in Italia molto successo. Esso soddisfaceva le esigenze più vive del Romanticismo: comporre un'opera utile al popolo e, nello stesso tempo, rappresentare la realtà, il vero. Gli epigoni di Manzoni finirono coll'esasperare eccessivamente queste caratteristiche, cadendo nell'esplicita propaganda politica e patriottica, o facendo degenerare il realismo nel fotografico. Le vicende narrate avevano la propria origine, spesso, nel Medioevo, epoca in cui si pensava di poter ritrovare i primi germi della futura nazione italiana. Dopo Manzoni, il romanzo storico non diede, in Italia, risultati significativi.

    La fortuna del romanzo storico

    Nei primi decenni dell'Ottocento si afferma in tutte le letterature europee il genere narrativo del romanzo. Il romanzo storico incontra grande fortuna presso i letterati romantici che prediligono la ricostruzione di ambienti e personaggi lontani nel tempo. Il più celebre romanzo storico che dà avvio a una vera e propria moda letteraria è Ivanhoe(1820) dell'inglese Walter Scott ambientato nell'Inghilterra del XII secolo. Con qualche anno di ritardo rispetto ai paesi del Nord Europa, il romanzo storico si diffonde anche in Italia, nonostante le resistenze dei letterati classicisti che lo consideravano un genere da rifiutare.

    Una scelta coraggiosa

    Quando Manzoni, nel 1821, concepì il progetto del suo romanzo, in Italia ancora il genere del romanzo storico era pressochè sconosciuto: di ritorno da Parigi, Manzoni lesse con attenzione il romanzo di Scott e scrisse all'amico Claude Fauriel una lettera dove esprimeva le sue opinioni in proposito. La passione per l'indagine storica, che nelle due tragedie manzoniane si era concentrata sui protagonisti della storia ufficiale successivamente si orientò verso gli "umili", le persone anonime, i popolani. Questa scelta fu motivo di non poche critiche fra i contemporanei, ma costituì uno degli aspetti più innovativi del romanzo manzoniano all'interno del panorama letterario italiano dell'Ottocento.

    Lo sfondo storico del romanzo

    I Promessi Sposi sono ambientati nel Seicento. Questo secolo si può considerare, più che lo sfondo, il vero protagonista del romanzo. Esso è presente nei suoi aspetti più caratteristici.
    1) Il Ducato milanese era allora sotto il dominio della Spagna, ma i veri padroni erano i potenti, i signorotti piccoli e grandi che circondati di sgherri, i bravi, facevano quello che volevano, ridendosene della giustizia.
    2) Gli umili vivevano nel timore e nella miseria, resa ancor più grave dai raccolti scarsi e dagli sperperi per la guerra.
    Si giunse così alla carestia e a vere e proprie sommosse popolari, come quella di Milano, alla quale tenne dietro la peste che seminò strage e dolore.
    A questi avvenimenti si mescolano e si intrecciano le vicende di Renzo e Lucia, e spesso la loro piccola storia privata sembra scomparire, sommersa nella grande storia di tutta l'epoca.
    Il Manzoni ambienta la vicenda nella Lombardia del 17° secolo:
    1) per far luce su una delle più buie e meno note della storia italiana,
    2) perchè questo secolo, che aveva dato prova della nefandezza più crudele e svergognata e nel quale c'erano i pregiudizi più assurdi ma anche l'esercizio delle virtù più toccanti, si prestava all'ambientazione di un romanzo che doveva commuovere e far riflettere il lettore,
    3) per sottolineare il ruolo storico della Chiesa nel Seicento, accanto ai personaggi deboli e inetti come Don Abbondio, il Manzoni presenta anche figure luminose come quella di Fra Cristoforo e del Cardinale Borromeo, le quali esprimono la forza morale della Chiesa, istituzione in grado di arginare o di combattere le prepotenze e l'arroganza dei potenti e di soccorrere gli oppressi.


    Caratteristiche del romanzo:

    • • Egli fa emergere una visione pessimistica della storia (oppressi; oppressori);
    • • A farsi portavoce della condizione storica così disastrata sarà la povera gente e non più i potenti;
    • • Scendendo agli umili dovrà poi però cambiare la lingua, non potendo usare così un linguaggio altisonante;
    • • Il Manzoni si cala nelle vesti di un narratore esterno che però si inserisce nella narrazione quando vuole ribadire un suo punto di vista e che egli scrive per educare;
    • • E’ presente anche un concetto di fede che è la chiave interpretativa di tutto ciò che accade.

    FATTI STORICI RIEVOCATI DAL ROMANZO

    1) La carestia del 1628;
    2) la sommossa milanese del novembre 1628;
    3) la conversione di Bernardino Visconti;
    4) il passaggio dell’esercito imperiale (Lanzichenecchi) per recarsi all’assedio di Mantova;
    5) la guerra di successione per Mantova e il Monferrato;
    6) la peste del 1630 a Milano e in Italia

    Provvidenza
    LA PROVVIDENZA. Il tema della provvidenza nel romanzo ha impegnato molto i critici. Per molto tempo ha tenuto banco la definizione del Momigliano ("Il romanzo è l'epopea della Provvidenza") che vedeva nella provvidenza la vera protagonista dell'opera, con la sua azione costante e il suo trionfo finale.
    Oggi, invece, si tende a riconsiderare questo protagonismo. Lo scrittore Calvino, ad esempio, ha visto nel romanzo la rappresentazione di un mondo, di una storia "abbandonata da Dio". Ma anche se non si condividono queste posizioni estreme ci si muove, oggi, verso una nuova dimensione della provvidenza
    , sentita (vedi Marchese) come DEUS ABSCONDITUS, cioè come illuminazione interiore che interpella continuamente l'uomo, lasciandogli però tutta la responsabilità della scelta (e Gertrude dirà no, come don Rodrigo, mentre l'Innominato dirà sì come fra Cristoforo).
    E' singolare il fatto, rilevato dai critici, che Manzoni non metta mai in bocca al narratore la parola "provvidenza", ma solo in quella dei personaggi, che ne danno versioni diverse (don Abbondio: "…è una ramazza", che ha fatto morire il suo nemico; fra Cristoforo: "La provvidenza c'è per tutti...").
    Forse questo significa la perplessità del narratore di fronte al misterioso agire della volontà divina, e anche l'autonomia che il narratore lascia alle sue creature, che esprimono giudizi anche diversi dai suoi.
    Così pure il tradizionale 'lieto fine' è ora considerato in un'ottica diversa. Esso è smitizzato e immeschinito (vedi Raimondi: Il romanzo senza idillio) dal narratore: è forse un 'lieto fine' quello in cui don Abbondio sfoga il suo egoismo volgare, Renzo la sua moralità piccolo-borghese di uno che vuol farsi solo "i fatti suoi" e il signorotto che prende il posto di don Rodrigo mostra quell'eccesso di umiltà (addirittura serve a tavola i due sposi, ma non siede a tavola con loro, bensì con don Abbondio) che sa troppo di teatralità e di ipocrisia ? E' lieto fine quello nel quale i due "eroi" della storia naufragano in un mare di pettegolezzi, meschine preoccupazioni, tanto che l'autore ci dice che la loro vicenda, da quel momento, a raccontarla, "annoierebbe a morte"? E' invece, quello, il ritorno, dei personaggi letterari alla loro dimensione comune e reale, alla prosaicità della vita di tutti i giorni. Non si vede proprio il 'trionfo della Provvidenza". Lo si vedrebbe se il romanzo finisse con la grande pioggia, forse. Ma esso, non a caso, finisce appena un poco più in là.

    Psicologia /personaggi Personaggi [modifica]
    • Don Abbondio
    1. Tipo/ruolo: personaggio principale, per codardia si trasforma in aiutante dell'antagonista (simboleggia chi, pur investito di responsabilità istituzionali, si piega al più forte)
    2. Caratteristiche socio-economiche: curato del paese, vocazione non spirituale ma di convenienza, umile e povero.
    3. Psicologia: pavido, egoista, pauroso e codardo, "scansare tutti i contrasti e cedere a quelli che non può scansare"
    4. Comportamento: Don Abbondio è succube del suo tempo, della sua epoca e delle ingiustizie presenti in essa; non riuscendo ad affrontarle tenta di scansarle, anche se inevitabilmente rimane travolto dalla vicenda
    • Perpetua
    1. Tipo/ruolo: personaggio minore (simboleggia la sincerità, la genuinità)
    2. Caratteristiche socio-economiche: domestica di don Abbondio
    3. Psicologia: pragmatica
    4. Comportamento: sa ubbidire e comandare, tollerare e imporre, non sa mantenere i segreti, poiché ha un animo abbastanza semplice, e "rozzo".
    • Lorenzo Tramaglino
    1. Tipo/ruolo: protagonista (simboleggia gli ingenui volenterosi)
    2. Caratteristiche socio-economiche: operaio tessile e contadino, condizioni economiche medie, orfano, fidanzato di Lucia
    3. Psicologia: animo buono, dai valori morali semplici e onesti; ma anche ingenuo e impulsivo, e per questo capace di cacciarsi nei guai, come accade a Milano.


    Lucia in un'illustrazione del 1840
    • Lucia Mondella
    1. Tipo/ruolo: protagonista, vittima (simboleggia l'innocenza, i valori puri del cattolicesimo)
    2. Caratteristiche socio-economiche: tessitrice, orfana di padre vive con la madre Agnese, fidanzata di Renzo
    3. Psicologia: timorata di dio, dotata di una morale solida, ma anche capace di sottili astuzie; come quando dà a fra Galdino una gran quantità di noci perché concluda prima la questua e torni presto al convento a chiamare Fra Cristoforo; o come quando, vedendo che l'Innominato comincia a commuoversi, esplode in accenti ancora più accorati, che lo inducono a capitolare.
    4. Comportamento: umile, riservato, pudico, ingenuo. Lucia appare più equilibrata e coerente di Renzo e di Agnese, anche se talvolta cede alle loro pressioni e si lascia convincere ad agire contro i propri principi, come quando accetta di partecipare al matrimonio a sorpresa.
    • Agnese
    1. Tipo/ruolo: aiutante dei protagonisti (simboleggia i valori pragmatici e materni)
    2. Caratteristiche socio-economiche: tessitrice, madre di Lucia
    3. Psicologia: pragmatica, sicura di sé, dotata di furbizia "di paese"
    4. Comportamento: materno, protettivo, impulsivo
    • Azzecca-garbugli
    1. Tipo/ruolo: aiutante dell’antagonista (simboleggia la manipolazione della legge a difesa dei privilegi)
    2. Caratteristiche socio-economiche: avvocato trasandato
    3. Psicologia: meschino
    4. Comportamento: al servizio dei potenti, comicità di gesti e smorfie
    • Padre Cristoforo (Lodovico)
    1. Tipo/ruolo: aiutante dei protagonisti, personaggio storico (simboleggia un cristianesimo coraggioso, capace di prendere posizione in difesa dei più deboli)
    2. Caratteristiche socio-economiche: padre cappuccino, di benestante famiglia di mercanti
    3. Psicologia: irrequietezza interiore, disciplina d’umiltà, somma spiritualità religiosa
    4. Comportamento: costante astinenza, autocontrollo, senso della giustizia, determinazione e coraggio
    • Don Rodrigo
    1. Tipo/ruolo: antagonista, incapricciato di Lucia (simboleggia i prepotenti)
    2. Caratteristiche socio-economiche: nobiluomo
    3. Psicologia: orgoglioso, maligno
    4. Comportamento: prepotente, capriccioso, offensivo, sarcastico, violento
    • Griso
    1. Tipo/ruolo: aiutante dell'antagonista (simboleggia la violenza gratuita)
    2. Caratteristiche socio-economiche: capo dei bravi
    3. Psicologia: opportunista
    4. Comportamento: prepotente, violento
    • Monaca di Monza (Gertrude)("la Signora")
    1. Tipo/ruolo: aiutante della protagonista, poi dell'antagonista, personaggio storico (suor Maria Virginia de Leyva) (attraverso il racconto delle sue vicende, Manzoni denuncia la monacazione forzata)
    2. Caratteristiche socio-economiche: figlia di un potente signore di Milano, secondo Manzoni è sempre stata indirizzata alla vita in convento, anche se ciò andava contro la sua natura
    3. Psicologia: frustrata, rancorosa, debole, indecisa, ambigua
    4. Comportamento: autoritario, capriccioso, enigmatico
    • Conte zio
    1. Tipo/ruolo: aiutante dell'antagonista (simboleggia la classe dei potenti e corrotti)
    2. Caratteristiche socio-economiche: potente rappresentante della famiglia, membro del Consiglio Segreto, zio del conte Attilio (cugino aiutante dell'antagonista don Rodrigo, cinico e amorale)
    3. Psicologia: risoluto
    4. Comportamento: serio, paternalistico, consapevole del suo potere
    • Innominato
    1. Tipo/ruolo: aiutante dell'antagonista, poi dei protagonisti, personaggio storico (simboleggia il pentimento, la conversione, la redenzione, valori base del cristianesimo)
    2. Caratteristiche socio-economiche: nobile, potente fuorilegge
    3. Psicologia: crudele, risoluto, inquieto, introspettivo, sensibile
    4. Comportamento: dapprima violento, "aspro, dominante e ostile" (v. valle); poi, a seguito del pentimento, umile e desideroso di espiazione
    • Oste
    1. Tipo/ruolo: aiutante dell'antagonista (simboleggia mentalità cittadina)
    2. Caratteristiche socio-economiche: oste
    3. Psicologia: opportunista, prudente, egoista
    4. Comportamento: teso al proprio interesse e alla propria sicurezza
    • Bortolo
    1. Tipo/ruolo: aiutante del protagonista (simboleggia valori familiari)
    2. Caratteristiche socio-economiche: tessitore, cugino di Renzo
    3. Psicologia: altruista
    4. Comportamento: disponibile, pragmatico
    • Cardinale Federico Borromeo
    1. Tipo/ruolo: aiutante dei protagonisti, personaggio storico (simboleggia un cristianesimo puro e ispirato)
    2. Caratteristiche socio-economiche: da facoltosa famiglia lombarda, arcivescovo di Milano
    3. Psicologia: autentica e profonda spiritualità cristiana
    4. Comportamento: puro, umile, caritatevole, altruista, disponibile, pacato
    • Sarto
    1. Tipo/ruolo: aiutante della protagonista (simboleggia l'uomo umile, il buon cristiano)
    2. Caratteristiche socio-economiche: sarto
    3. Psicologia: altruista
    4. Comportamento: disponibile, goffo e imbarazzato
    • Donna Prassede
    1. Tipo/ruolo: aiutante ambigua della protagonista (simboleggia il bigottismo)
    2. Caratteristiche socio-economiche: nobildonna milanese, moglie di don Ferrante
    3. Psicologia: benefattrice bigotta, dalla carità e dalla morale malintesa, pregiudizi arroganti e autoritari
    4. Comportamento: disponibile ma intrigante, autoritario, malizioso
    • Don Ferrante
    1. Tipo/ruolo: aiutante della protagonista (simboleggia l’ottusa cultura erudita e accademica)
    2. Caratteristiche socio-economiche: uomo di cultura, marito di donna Prassede
    3. Psicologia: vuota erudizione
    4. Comportamento: non comanda né ubbidisce, studia tutto il giorno con rabbia e compiacenza della moglie, professore di cavalleria, quotato consigliere su questioni d'onore
    • Conte Attilio
    1. Tipo/ruolo: aiutante di Don Rodrigo, di cui è il cugino
    2. Caratteristiche socio-economiche: nobile proveniente da Milano, sembra più importante di Don Rodrigo
    3. Psicologia: dal carattere molto semplice
    4. Comportamento: sa trasformare il suo comportamento, scherzoso con Don Rodrigo, serioso e truffaldino con il conte Zio
    • Tonio
    1. Tipo/ruolo: aiutante di Renzo
    2. Caratteristiche socio-economiche:Compaesano di Renzo, lo aiutera nel tentativo di matrimonio per sorpresa venendo a far da testimone (ovviamente sotto compenso)
    3. Psicologia: Furbo e acuto, si dimostra molto affettuoso nei confronti del fratello Gervaso, che definisce "un sempliciotto", mentre in realtà egli é un disabile mentale.
    PERSONAGGI STORICI RINTRACCIABILI NEL ROMANZO

    1) Il cardinale Federigo Borromeo;
    2) l’Innominato, in cui rivive Bernardino Visconti;
    3) Gertrude, ovvero Marianna de Leyda;
    4) padre Cristoforo, al quale corrisponde, in parte, Lodovico Picenardi di Cremona;
    5) gli uomini di governo.

    Verosimile Il libro "I Promessi Sposi" tratta di una vicenda verosimile, ancorata al
    reale, immersa nei costumi storici di un'epoca ben definita, colta nella
    concretezza del suo spirito e della sua civilta'.
    Si puo' considerare l'epopea degli umili e della loro vita, infatti i due
    protagonisti sono popolani che sembrano riassumere del popolo le doti
    migliori.
    Sullo sfondo domina sempre un paesaggio familiare di Lombardia, con
    i suoi cieli, i suoi monti, le sue acque, la sua mite luce autunnale,
    sempre smorzato e triste, in armonia con il tono un po' dimesso del
    racconto. Il linguaggio, sebbene talvolta arcaico, e' accessibile a tutti
    perche' il libro e' stato creato anche per educare le masse, ma
    soprattutto per dimostrare che l'uomo, sorretto dalla fede, puo'
    sovrastare il male che c'e' nel mondo se si affida alla divina
    provvidenza, che per il Manzoni rappresenta l'intervento divino sul
    genere umano.






    Paesaggio

    L'uso del paesaggio nei Promessi Sposi è un elemento tecnico molto importante che porta alla soluzione di un problema fondamentale: come far capire al lettore in profondità l'anima dei personaggi dando nel contempo una collocazione spaziale in campo aperto alla vicenda (il campo aperto si contrappone al campo chiuso rappresentato da una casa o addirittura una stanza), ed è descritto sempre con molta sobrietà. Rappresenta spesso il commento alle vicende e lo specchio dello stato d'animo dei personaggi. La celebre descrizione di Quel ramo del lago di Como offre al lettore le coordinate spaziali della vicenda e la inquadra in un alone di poesia. I segni della carestia, che ha aggredito anche gli abitanti delle campagne, sono evidenziati all'inizio del capitolo IV con la rappresentazione dei contadini che seminano con parsimonia e preoccupazione, con la ragazzetta che conduce una mucca magra e le sottrae erbe commestibili, da portare alla famiglia. L'Addio ai monti, a conclusione del capitolo VIII sottolinea la struggente nostalgia di Lucia che si allontana da luoghi cari, prendendone congedo con strazio, mentre il cielo luminoso, che accoglie Renzo dopo aver guadato l'Adda all'alba e aver conquistato la libertà (cap. XVII), sembra la promessa di un futuro sereno. La valle cupa e le montagne brulle su cui incombe il castello dell'innominato sono un'introduzione alla comprensione della sua violenza, mentre il cielo che lo sovrasta pare fungere da interlocutore, quasi da coscienza per il tiranno (cap. XX). E quando egli, dopo la notte drammatica in cui le parole di Lucia gli hanno suggerito una possibile soluzione al disagio della sua vita, si affaccia alla finestra, vede la valle chiara allietata dallo scampanio e il cielo grigiastro percorso da nuvole leggere: paiono simboleggiare il suo passato che si va sfaldando, per lasciar spazio alla luce della Provvidenza Divina (cap. XX).
    Molte sono le indicazioni di paesaggio che sembrano configurare aspetti della vita degli uomini. Quando Renzo torna al suo paese, devastato dalla peste e dalla calata dei lanzichenecchi, trova la sua vigna distrutta e infestata dalle erbacce: segno tangibile del disordine morale dei tempi (cap. XXXIII). Invece il paesaggio greve, oppresso dall'afa nella Milano distrutta dalla peste e l'acquazzone gioioso che toglie il contagio (cap. XXXVI), non soltanto sottolineano un'atmosfera, ma traducono in termini concreti un diffuso stato d'animo: al languore e alla spossatezza della disperazione si sostituisce una gioiosa speranza, quasi un senso di purificazione e di rinnovamento. In alcuni casi, più che di paesaggio si può parlare di ambientazione. Lo notiamo nelle scene di villaggio, nella descrizione dell'interno delle case, in quel "brulichio" che riempie le strade al crepuscolo e dà la misura della vita, la sera in cui Renzo organizza il matrimonio a sorpresa (cap. VII). Anche il palazzotto di don Rodrigo, cui si arriva per una stradetta che attraversa il villaggio dei bravi, pare visualizzare il male come frutto di mediocrità, egoismo, opacità intellettuale, piattezza morale e staticità spirituale. A guardia della massiccia costruzione stanno due bravi e due carcasse di corvi, mentre le finestre sbarrate, l'urlo dei mastini all'interno e il vociare dei convitati al banchetto del padrone non sono meno volgari dell'aspetto degli abitanti del villaggio: "omacci tarchiati e arcigni [...] vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti [...] a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute [...]" (cap. V). Non è propriamente una descrizione di paesaggio, ma rimanda a un ambiente con una precisa connotazione spirituale e, dunque, è coerente col modo in cui il Manzoni intende il paesaggio, come riflesso e elemento per capire le alterne vicende umane.

    Il paesaggio nei Promessi Sposi svolge una duplice funzione: oltre a quella solita di localizzazione dei fatti del romanzo, in quest'opera esso serve anche a sottolineare e specificare gli stati d'animo, i sentimenti e il carattere dei vari personaggi. Il romanzo si apre con una presentazione molto efficace dell'ambiente in cui si svolgono i fatti, l'abilità del Manzoni è grande anche in questo caso, infatti, le descrizioni sono così vive che sembra quasi di trovarsi in quei luoghi, di poterli toccare!

    Nel II capitolo lo scrittore ci immerge subito nella vita dei suoi personaggi, descrivendoci le vie del paese e le case dove essi vivono. Proprio in questo capitolo l'ambiente comincia ad entrare a far parte dello spazio psicologico del romanzo: ne è un esempio la descrizione della passeggiata di don Abbondio che cerca di evitare i sassi che incontra sul suo cammino, da queste poche parole ci è già possibile capire il carattere del personaggio.

    Proseguendo nella lettura il Manzoni ci preannuncia quello che sarà uno dei temi principali della seconda parte del romanzo, la peste: notevole è la descrizione del paesaggio che accompagna fra Cristoforo dal convento di Pescarenico alla casa di Lucia. Uno dei passi più noti del romanzo è "l'addio monti": Lucia, allontanandosi dal suo paese su una barca, ripensa al paesaggio che sta abbandonando e, data la grande malinconia di Lucia, anche l'ambiente sembra malinconico, triste e nostalgico, sottolineando così lo stato d'animo di Lucia.
    La descrizione del "palazzotto di don Rodrigo" e del "castellaccio dell'Innominato" è assolutamente indispensabile al profilo psicologico dei due personaggi: al primo si giunge attraversando un "mucchio di casupole" all'interno delle quali si possono intravedere attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, che paragonati a moschetti, sciabole e partigiane del castellaccio sono un po' ridicoli.Il comico paragone tra le due residenze continua ancora, infatti, il palazzotto, che si trova sulla cima di un poggio, si raggiunge tramite una viuzza a chiocciola, mentre al castellaccio sito a cavallo di una valle angusta e uggiosa si arriva percorrendo una terribile strada tutta a gomiti e a giravolte.
    Infine da notare è la descrizione che il Manzoni fa della natura durante il viaggio di Renzo da Milano a Bregamo, sul suo percorso egli si addentra in un bosco, locus orridus della letteratura di tutti i tempi; il bosco è come una metafora della situazione in cui si trova Renzo, è, infatti, il labirinto del suo carattere. I caratteri predominanti del bosco sono la paura, la confusione, l'abbandono, e questi sono anche i sentimenti che Renzo prova in questo momento.
    Analisi delle descrizioni di paesaggio contenute nella prima sezione de "I Promessi Sposi"

    Nel romanzo possiamo individuare sei descrizioni di paesaggi:

    * Capitolo I: apertura della vicenda sul lago di Como.
    * Capitolo IV: il paesaggio desolato sotto gli occhi di fra Cristoforo.
    * Capitolo V: Il palazzo di don Rodrigo.
    * Capitolo VI: la casa di Tonio.
    * Capitolo VIII: Don Abbondio lancia l'allarme nella Notte degli imbrogli e il paese scende in piazza.
    * Capitolo VIII: la scena dell'Addio dal paese.

    Capitolo I
    Apertura del romanzo sulla scena in cui inizia la vicenda: "Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti...". L'infelicità dell'apertura del romanzo si riduce al ritmo un po' pesante e solenne delle primissime linee: ben presto si riconosce in questa descrizione lo stile riposato, attento, un po' minuto che già si era notato nell'Introduzione. Ma questa topografia della scena dei Promessi Sposi ha un andamento lento come non si troverà in nessun'altra parte del libro. Come inizio di romanzo può sembrare poco attraente; eppure c'è in esso una doppia giustificazione: la familiarità affettuosa dello scrittore che, per aver passato tanto tempo in quei luoghi, vi vedeva tanta parte di sé; e, dietro alla sua, la famigliarità abitudinaria di don Abbondio che, fino a questo fatale 7 novembre, aveva sempre posato pacatamente lo sguardo su ogni angolo di quel paesaggio nella sua passeggiata serale. Queste pagine sono già l'ultima pagina serena della vita di don Abbondio, in un romanzo tutto turbamenti e mutamenti.
    La costruzione del periodo è notevole per la distribuzione armonica delle singole parti ricongiungendo chiaramente la fine ("in nuovi golfi e nuovi seni") all'inizio ("tutto a seni e a golfi") e lascia l'impressione di un motivo pittorico musicalmente compiuto.

    Descrizione della passeggiata abitudinaria di don Abbondio, subito dopo la descrizione del paesaggio: "dopo la voltata, la strada correva dritta, forse una sessantina di passi, poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon...". Qui la descrizione della passeggiata si ferma in un'attentissima descrizione topografica prima, ritrattistica poi. La sosta ha una sua ragione poetica: questo è lo scenario dell'avvenimento capitale della vita di don Abbondio, che gli rimarrà nella mente per sempre.
    Capitolo IV
    Apertura del capitolo con l'immagine di carestia tanto frequente a quei tempi: comunica immediatamente l'animo triste del frate che osserva la scena "Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole si alzava dietro al monte, si vedeva la sua luce scendere giù per i pendii. La scena era lieta; ma ogni figura d'uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero...". La descrizione di questo mattino d'autunno ha l'andamento di un'osservazione oggettiva, di una fedele pittura. Il Manzoni non mira ad altro che a mettere il quadro sotto gli occhi: forse i paesaggi sono il miglior esempio della convinzione del Manzoni che l'arte è lo studio e la riproduzione del vero. Il passo degli uomini nei campi segna il passaggio dall'intonazione riposata a quella malinconica: i periodi si susseguono staccati, con pause fra l'uno e l'altro e interne, che danno un'impressione di silenzio e di pena. Con questo occhio quieto e triste il Manzoni fa sentire la malinconia e l'oppressione attraverso gli atteggiamenti e la modulazione del periodo. Lo stesso effetto ha su padre Cristoforo: "Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate...".
    Capitolo V

    Fra Cristoforo giunge al paese di don Rodrigo e ne osserva lo squallore: "Appiè del poggio giaceva un mucchietto di casupole, abitate dai contadini di don Rodrigo. La gente che si incontrava erano omacci tarchiati ed arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo; vecchi che, perdute le zanne, parevano sempre pronti a digrignar le gengive...". In tutta questa descrizione d'ambiente, quello dei vecchi è il particolare più efficace; c'è dentro tutto il ribrezzo verso la malvagità degli anziani. In questo paesaggio solo guardando i volti dei contadini traspare la cattiveria e la violenza dei seguaci di don Rodrigo. "Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse, erano però difese da grosse inferriate. Due grand'avvoltoi, con l'ali spalancate, e co' teschi penzoloni, erano inchiodati ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati sur una delle panche facevano la guardia...". Il Manzoni non fa il ritratto di don Rodrigo; ma questa vile fortezza ne tiene vantaggiosamente le veci: particolarmente la porta, contrassegnata da due avvoltoi (e non aquile) e guardata da due bravi sdraiati - un misto di minaccioso e volgare, dove si vedono la boria e la prepotenza ed insieme la sua bassezza -. Ma il quadro si impone anche per se stesso, per quel pennelleggiare largo e potente, per quella simmetria tra macabra e volgare.
    Capitolo VI

    "Andò addirittura alla casetta di un certo Tonio; e lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e, tenendo, con una mano, l'orlo d'un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia...". È la più ampia scena domestica, anzi paesana, incontrata finora. Si svolge con una linea affettuosa, pittoresca, ma sopra tutto pensosa. Sono descritti tutti i particolari - Tonio nell'atteggiamento di far la polenta-, la vivacità delle figure - "tre o quattro ragazzetti con gli occhi fissi"-, il gusto del colore che traspare dall'immagine della polenta scodellata - "e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori"-. Ma il quadretto è immerso nell'aria del tempo, e quindi impregnato di mestizia: come quello del principio del capitolo quarto, che è anch' esso fatto di particolari modesti, ma tutto velato di malinconia. Sono, l'uno in un interno famigliare, l'altro nell'aperta campagna, i riflessi della miseria del secolo. Il passo "Ma non c'era quell'allegria. Sopravvivere..." ha la stessa intonazione dei tratti del capitolo IV "La scena era lieta; ma ogni figura d'uomo che vi apparisse, rattristava il pensiero" . In questi brani troviamo quell'intonazione di malinconia raccolta e meditativa che ritorna ogni volta che il Manzoni si deve fermare sulle tribolazioni o sulle sciagure degli uomini.
    Capitolo VIII

    "Ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fienile, tendono l'orecchio, di rizzano. Molte donne consigliano, pregano i mariti,di non moversi, di lasciar correre gli altri." La scena si allarga e si popola, rapidissima; il ritmo cambia. Anche qui un senso vivissimo della vita del villaggio: i giovani nel fienile, i mariti a letto, i più animosi con le forche e gli schioppi. E, insieme, una psicologia veloce ma accorta, intonata alla concitazione della scena: le donne timorose, i poltroni che sembrano compiacenti.
    "e la luna, entrando per lo spiraglio, illuminò la faccia pallida, e la barba d'argento di padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettativa...". La luna fornisce al Manzoni in questo capitolo il motivo fondamentale della dominante quiete disturbata, gli ispira quadri d'incanto (anche la faccia di fra Cristoforo imbevuta di pallore lunare) e pensose tristezze, e finisce per restare l'unica, solitaria, sovrana nota del paesaggio, per distendere il suo silenzio su tutto ed accompagnare con la sua malinconia quella della giovane fuggiasca che, posato il braccio sulla sponda della barca, posata sul braccio la fronte, come per dormire, piange segretamente.

    "il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l'ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava dal cielo.Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne...". Questa pagina dell'Addio è una sommessa armonia di suoni e di tinte: ne viene un'impressione di silenzio e di lenta, malinconica pace. Tutto sembra traduzione della realtà in parole: è il solito Manzoni, sempre fedele al vero, la solita precisione che chiude il varco al sentimentalismo e sembra lasciar parlare le cose.

    "il palazzotto di don Rodrigo": adagio, naturalmente, il motivo si è accostato all'anima della protagonista. I passeggeri sono silenziosi, dopo tanti spaventi: ma stanno con la testa voltata indietro, e guardano i monti ed il paese. La notte è chiara, tutto si distingue; e il pensiero, senza parole, corre sui luoghi da cui è nata la vicenda: il palazzotto di don Rodrigo, che sembra ancora minacciare, e via via, con una dolcezza e tristezza crescente, il paesello, la casetta, la chioma folta del fico e la finestra della camera da cui Lucia sarebbe andata a sposarsi. Sotto tutto c'è una nota di dolore che continua nell'atteggiamento finale di Lucia - posò il braccio sulla fronte - finchè due sole parole scoprono il sentimento: e pianse segretamente. Le parole dell'Addio non appartengono a Lucia, ma il ritmo è il suo, della sua anima semplice e pura, dolente ma rassegnata e serena; e sua è la trepidazione dell'ignoto e il religioso sospiro di promessa.

    E' notevole come il Manzoni riesca, con un paesaggio, a comunicare al lettore i sentimenti ed i particolari visivi come se anche egli fosse proprio lì, ad osservare la triste scena di povertà e carestia insieme a fra Cristoforo nel quarto capitolo, o sulla sponda del lago, spettatore della partenza di Lucia dal suo paese. Non si limita però a mettere sotto gli occhi una attenta descrizione, ma aggiunge aggettivi o parole che evidenziano il sentimento predominante nella scena. In questo studio del vero c'è qualcosa di "santo". Nei passi salienti il paesaggio, a prima vista, ha un aspetto domestico, ma sottintende un animo semplice e più elevato: conservando un preciso disegno, libero da ogni infiorettatura (come ha sottolineato nell'Introduzione), evidenzia il sentimento dei personaggi sullo sfondo della natura, che sembra sempre in armonia col loro pensiero.

    lingua Il problema della lingua si pone alla fine della prima stesura: sceglie un linguaggio adatto ai personaggi. Al Manzoni gli si pone così il problema di trovare una lingua adatta ai fini e alla struttura del suo romanzo e così sostiene che la lingua arcaica non può essere adatta alla sua opera.
    In una lettera egli sostiene di voler scrivere bene un romanzo in italiano, ma egli afferma anche che è “un’impresa disperata” perché non vi è una lingua unica in Italia, bensì un numeroso insieme di dialetti
    .
    Il Manzoni si trova così a dover scegliere un dialetto e così scelse il fiorentino parlato dalle persone colte
    .
    Il Manzoni afferma di aver “risciacquato in Arno i Promessi Sposi” e ciò significa che scelse il dialetto fiorentino; egli lo voleva adottare come mezzo di unificazione sociale.

    Egli frequentò a lungo gli ambienti di Firenze e giunse così alla conclusione che quella era la lingua adatta. Ma perché proprio essa? Perché ha alle spalle la lingua di Dante, Boccaccio e Petrarca.

    All’epoca si fece notare al Manzoni che anche il Fiorentino era un dialetto e ciò ci fa capire quanto era in gioco l’unità nazionale. Egli fu anche criticato per questa sua scelta ed egli scrisse addirittura al ministro dell’istruzione Broglio di insegnare il fiorentino a scuola.

    Noi dobbiamo quindi vedere nel Manzoni colui che ha cercato l’unità linguistica e ciò significa che egli questa nuova lingua come la promotrice dell’avanzamento culturale dei ceti bassi.

    La tecnica manzoniana del dialogo

    La ricerca di un proprio linguaggio narrativo non si presentava all’autore dei Promessi sposi sotto il segno dell’astrazione. Non si trattava di inventare, o, in senso più concreto, liberare una forma di linguaggio di predeteminata struttura letteraria, bensì di entrare in possesso di una vastissima gamma di possibilità espressive che consentissero la piena assunzione in poesia delle varie "occasioni" narrative. Ad esempio: il paesaggio, oppure il ritratto psicologico, o anche la vicenda storica. Per il paesaggio il Manzoni ha bisogno di un linguaggio altamente liricizzato, ma di un lirismo segreto e quasi spezzato da continue inframettenze analitiche ("la luna, in un canto, pallida e senza raggio, pure spiccava nel campo immenso d’un bigio ceruleo, che, giù giù verso l’oriente, s’andava sfumando leggermente in un giallo roseo", dirà presentando agli occhi di Renzo il cielo di Lombardia [cap. XVII]); e le minute cose descritte con così riposata cura vibreranno di un rattenuto lirismo che a tratti si scopre purissimo. Nel ritratto psicologico il linguaggio si "slirica" del tutto, accogliendo una tonalità fondamentalmente riflessiva e intima, la quale vuole di proposito tenersi lontana da ogni inflessione appena appena realistica; la parola di questo linguaggio tradirà l’equidistanza tra lirismo e realismo, tra termini di limpida natura poetico-letteraria e vocaboli caratterizzati ("Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata da’ sentimenti che l’avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que’ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa" [cap. XXI]); e la complessa impostazione morale dell’innominato conoscerà una sua forma di comunicativa col lettore attraverso una misurata utilizzazione di termini introspettivamente caratteristici e di immagini assai più morali che visive.

    Per converso, la narrazione storica è sorretta da un’esperienza formale di tipo classicistico, ma in quell’austera vibrazione moralistica e in quel sereno vigore espositivo e critico che nascevano dalla famigliarità con le opere della storiografia antica e dal lungo lavoro di preparazione alle tragedie se ne origina un inconfondibile timbro narrativo, sottilmente emozionato: "Ma due fatti, l’uno di cieca e indisciplinata paura, l’altro di non so quale cattività, furon quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d’un attentato possibile, in sospetto, e per molti in certezza, d’un attentato positivo, e d’una trama reale. Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito... " [cap. XXXI].

    Il linguaggio dei Promessi sposi è, dunque, piuttosto un coro, un concerto di linguaggi, e le leggi d’armonia che regolano un siffatto contrappunto stilistico, vengono spesso ricondotte in una dimensione modesta per tramite di quei "cantucci", di quelle pause discrete e sorridenti, di quegli ironici incisi, che graduano il passaggio da una tonalità stilistica all’altra in modo da evitare eccessi e sfasature. Questa sapiente graduazione di tonalità è soprattutto necessaria al Manzoni in quei momenti del romanzo dove si fronteggiano situazioni e personaggi diversissimi (ad esempio nel cap. XX111, allorché si trovano nella stessa stanza tre uomini, tre mondi, diversi come il cardinale l’innominato e don Abbondio; o nel cap. XIII, la scena della sommossa, ricca di elementi così vari, dal tragico al pittoresco, allo scherzoso, al meditativo), ma è sempre in opera nel dialogo. Studiare il dialogo è, quindi, occasione peculiare per conoscere tutta la compagine stilistica dei Promessi sposi, e conoscerla non in stasi ma in movimento. E se nel dialogo, necessariamente, l’elemento realistico e mimetico è in primaria posizione, il vario atteggiarsi delle intonazioni dialogiche (staremmo per dire l’urtare e il fondersi di tutte le voci) ci farà conoscere quante altre intenzioni espressive, oltre a quella del realismo, concorrano a formare il linguaggio del dialogo. E quando il dialogo è con se stesso, è monologo, è riflessione rapidissima ("- Ahi! - pensò il provinciale, e disse... " [cap. XIX]) o molto elaborata, allora il dialogo manzoniano unisce alla perspicua proprietà illustrativa o caratterizzante del personaggio anche una funzione di pausa di smorzatura e perfino di risoluzione del tono poetico del racconto.


    critica Il senso reale della vita

    Il fondatore della moderna storiografa letteraria italiana, Francesco De Sanctis (Morra Irpina, 1817-Napoli, 1883) si occupò a più riprese del Manzoni, l’opera del quale contribuì in maniera decisiva a orientare il suo gusto verso quel realismo romantico che ne costituisce il definitivo approdo. Sull’attività dello scrittore lombardo De Sanctis concentrò il proprio impegno di critico prima del 1848, nella sua scuola privata di Napoli, quindi, dopo l’esilio per motivi politici, nel suo insegnamento al Politecnico di Zurigo (1856-59) e indi ne nel corso di lezioni dell’anno accademico 1871-72 presso l’Università di Napoli, dove era stato chiamato ad insegnare letteratura comparata.Il brano che segue è tratto dal saggio I promessi sposi pubblicato sulla "Nuova Antologia" nel dicembre 1873. Tale saggio, con tutti gli altri scritti manzoniani del De Sanctis, ad eccezione delle lezioni della prima scuola napoletana, si legge per intero in Manzoni, a cura di C. Muscetta e D. Puccini, Torino, Einaudi, 1965, vol. X delle Opere di Francesco De Sanctis.

    L’ideale manzoniano [...] non è già un mondo puramente spirituale vivente nella immaginazione di uomini colti, non ancora realtà, ma semplice aspirazione, perciò lirico, polemico, satirico, com’è l’idea in opposizione col fatto, ma è un vero organismo storico, ove l’ideale vive ne’ più, alterato, pervertito, invecchiato, pure diversamente graduato, dal più basso al sommo della scala, da don Abbondio sino a Federico Borromeo. L’idea è dunque lo stesso fatto sociale, così come si mostra ne’ suoi diversi aspetti, e i giudizi, le tendenze, le simpatie dell’autore non sono elementi postumi e personali e soprapposti, ma sono parti anch’esse di quell’organismo storico, entro il quale se molti facevano altrimenti, tutti giudicavano nella loro coscienza allo stesso modo. Abbiamo così la base di un vero romanzo storico, dove l’idea non fa stacco, perché nelle sue varie gradazioni, nella sua purità eroica, nella sua mezzanità, ne’ suoi pervertimenti trova riscontro nelle simili gradazioni dello stesso fatto sociale, o che gli avvenimenti siano inventati, o che siano positivi. E la grande originalità del romanzo è appunto questa, che la sua base non è una storia mentale preesistente a fatti e impostasi a quelli, ma è una storia reale e positiva, nella quale si sviluppa naturalmente tutta quella serie d’idee che costituiscono il mondo morale del poeta. Quello che a Manzoni pareva un genere ibrido, è appunto la grande novità che caratterizza questo secolo, e dove egli è sommo, l’aver sostituito agl’ideali assoluti e astratti storie concrete e positive, in cui quelli acquistano un limite e diventano veri organismi storici. E il secolo in questa via ha talmente camminato, che oggi siamo giunti proprio all’opposto, all’assorbimento dell’ideale nel "realismo": dico assorbimento, e non eliminazione, o negazione; che sarebbe non un progresso, ma un’assurda caricatura. L’originalità del romanzo è dunque in questo, che l’ideale non è una idea del poeta, un suo proprio mondo morale foggiato dal suo spirito e che faccia stacco nel racconto, ma è membro effettivo ed organico d’una storia reale e concreta. Non è un ideale realizzato dall’immaginazione con processi artificiali, ma è un ideale divenuto già una vera realtà storica, e colto così come si trova in una data epoca e in un dato luogo; onde nasce la perfetta obbiettività del racconto, e la concordia e l’armonia della composizione nella maggior semplicità dell’intrigo, sicché tu leggi tutto di un fiato sino all’ultimo, e il disegno ti rimane innanzi e non lo dimentichi più. L’autore non vi si mescola, se non come un tuo aiuto, una specie di cicerone, che ti dà la spiegazione e l’impressione di quello che vedi, non senza qualche malizia a tue spese; ma chi ben nota, il suo spirito erra per entro al racconto come un alito armonico e sereno, che regola e contiene i movimenti serbando nell’alterno corso delle cose e degli uomini l’equilibrio e la misura. Ciò che Manzoni andava cercando, e che gli parve non raggiunto e non possibile a raggiungere, cioè l’unità della composizione e l’omogeneità de’ suoi elementi, ancorché alcuni storici e alcuni inventati, è perfettamente conseguito, anzi è qui la sua originalità, qui il grande posto che tiene nella storia della nostra letteratura. Il suo romanzo storico non è solo un bel lavoro artistico, ma è un vero monumento, che occupa nella storia dell’arte quel medesimo luogo che la Divina Commedia e l’Orlando Furioso.Questa nuova posizione presa dall’arte sotto la forma di romanzo storico, e penetrata ora in tutti i rami, ha questo effetto, che non hai più un ideale che si appropria natura e storia come una sua manifestazione, ma un vero mondo storico nel tal tempo e nel tal luogo, che dà non ad una idea estranea e mentale, ma al "suo ideale", il limite e la misura, cioè a dire vita piena e concreta. Dico suo ideale, perché l’ideale non è un mondo a parte, segregato dalle cose, nella sua perfezione logica e morale, e non è neppure il genere e la specie delle cose, non il loro tipo o esemplare, rappresentato sotto forma individuale; ma è un proprio e vero individuo, dove si spoglia la sua perfezione e prende Ull carattere e una fisionomia, cioè un complesso di parti buone e cattive, di elementi sostanziali e accidentali, che gli tolgono la sua generalità e lo fanno esser questo e non quello. Sicché l’ideale non è l’uno e lo stesso nella infinita varietà della natura e della storia, ciò che fu detto l’uno nel vario, ma è il proprio e l’incomunicabile, l’individuo o il vivente, di là dal quale non sono che astrazioni. Ciascuna cosa che vive ha un ideale suo, il "caratteristico", che la fa esser se e non altro; ciò che si dice individuo. Non si vive che come individuo. E meno la vita è sviluppata: minore è la forza caratteristica o individuale, più rassomiglia a genere o tipo; e più la vita è ricca e varia: più vi è scolpita la sua individualità, più il suo ideale vi s’incorpora e vi si distingue. Ma se ciascun individuo ha un ideale suo, segue che ci ha di ogni sorta ideali, belli e brutti, buoni e cattivi, e che don Abbondio e don Rodrigo, e fin Tonio e Griso sono personaggi non meno ideali e non meno poetici che Lucia e Borromeo. Anzi chi va a fil di logica, è sforzato a conchiudere che base così dell’arte come della vita è non il perfetto, ma l’imperfetto, se è vero che l’ideale, perché viva, dov’essere un individuo, avere le sue miserie, le sue passioni e le sue imperfezioni. Cosa dunque farà l’artista? Cercherà non l’ideale, ma l’individuo, così com’è; avrà innanzi un modello non mentale, ma vivente; terrà dietro non alle idee, ma alle forze che mettono in moto natura e storia, e producono l’individualità, cioè a dire la vita. E chi guarda alla storia dell’ideale nel mondo moderno, vedrà che dalle cime del più astratto ascetismo essa è uno scendere lento, ma assiduo verso la terra, incorporandosi sempre più ed entrando in tutte le differenze e le sinuosità della vita. In questo cammino noi ci siamo lasciati oltrepassare, rimasti stazionari e vuoti e oziosi arcadi, più sognando che vivendo; ora ci siamo risvegliati, e cominciamo una nuova storia, e la pietra militare della nostra nuova storia è questo romanzo, dove risuscita con tanta potenza il senso del reale e della vita.In effetti la straordinaria importanza di questo lavoro non è solo che un mondo mentale sia calato in modo nella storia, che vi acquisti tutte le apparenze della realtà, ciò che sarebbe lo stesso processo antico e consueto recato a maggior perfezione; ma che quel mondo sia modificato nella stessa sua sostanza, e sia non apparenza di realtà, ma realtà positiva, parte organica di un’epoca storica. Non è l’ideale artificiosamente realizzato con processi artistici, sì che la realtà divenuta la sua faccia o la sua apparenza vi sia abbellita e perfezionata; ma è l’ideale limitato nella sua natura, partecipe di tutte le imperfezioni dell’esistenza, non più un ente logico o un tipo, ma divenuto una vera forza vivente, non più una individuazione, cioè a dire un’apparenza d’individuo, ma una vera individualità: ciò che dicesi il limite e la misura dell’ideale. Ora Manzoni ha pochi pari nella finezza e profondità di questo senso del limite o del reale, che è il segno caratteristico di un mondo adulto e virile. Tutto ciò che esce dalla sua immaginazione, ha il carattere severo di una realtà positiva, esce cioè limitato, misurato, così minutamente condizionato al luogo, al tempo, a’ caratteri, alle passioni, a’ costumi, alle opinioni, che ti balza innanzi una individualità concreta e piena, un vero essere vivente. I più studiano ad abbellire, a produrre effetti maggiori del vero; il suo studio è a limitare disegni, proporzioni, colori, secondo natura e storia, sì che tu dica: - È vero -. Il meraviglioso e l’eroico, il perfetto, ciò che dicesi l’ideale, non lo alletta, anzi lo insospettisce, e mette ogni cura a ridurlo nelle proporzioni del credibile e del naturale. Dove i più si affannano ad ingrandire, lui si affanna a ridurre in giusta misura. Onde quel suo mondo religioso e morale, preconcetto nella mente con tanta perfezione, entrando nella storia tra avvenimenti veri e finti, vi s’innatura e vi s’incorpora, imperfetto appunto perché vivo. O per dir meglio, se quel mondo si può chiamare imperfetto di rincontro alla sua esistenza logica e mentale, è perfettissimo come fondo vivente, e perciò mondo dell’arte. Certo, niente vi è di più meraviglioso, che la conversione dell’innominato. Il pianto di Lucia, che ispira nel Nibbio un sentimento nuovo, la compassione, produce in lui una trasformazione così profonda, che lo converte, lo fa un altro essere. Si vegga con quanta industria il poeta, un fatto così straordinario che il volgo attribuisce a miracolo della Madonna, riconduce nelle proporzioni di un fenomeno psicologico. E se Borromeo compie il miracolo con la sua ardente parola, si dee non solo a quella fiamma di carità che lo divora, a quella sua eroica esaltazione religiosa, ma a qualità più mondane che pare diminuiscano il santo eppure lo compiono e lo perfezionano. Perché il poeta allato al santo fa apparire il gentiluomo, l’uomo di mondo e di esperienza, dotato di cultura, di un tatto squisito, di una grande conoscenza de’ caratteri e delle debolezze umane, che indovina i pensieri e le esitazioni più occulte de’ suoi interlocutori, e sa tutte le vie che menano al loro cuore, sì che vince le ultime resistenze dell’innominato e di don Abbondio, e più si accosta e si abbassa a quelli, più il santo ci si fa accessibile, più lo sentiamo a noi vicino. Veggasi pure, che se le parole di padre Felice fanno un così grande effetto, si dee a quel complesso di fatti e di circostanze, che lo ispirano e lo mettono in comunione con gli uditori, e lo rendono eloquente più che non sono tutt’i nostri oratori sacri presi insieme.
     
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